Racconto di Elisabetta Terzariol, Marketing Manager di GLP, player internazionale del settore immobiliare logistico
Avevo 14 anni quando persi la testa per Lei. Lei é la Regina per antonomasia, Elisabetta Ii, ormai detta (almeno da me) La Grande. Davanti ai cancelli di Buckingham Palace, con la bocca spalancata per lo stupore, ammirando il cambio della guardia, un balcone che avevo visto solo in TV, fasti e grandezze a me sconosciuti, cominciai a sognare: di incontrarla, di essere invitata per un “afternoon tea”, di poter conversare con lei del più e del meno.
Ma cos’è il più e il meno quando chiacchieri con una reale? “Mi si é sbeccato il diamante della corona, che disdetta”. “Lei come toglie le macchie dai broccati del ‘600?”.
Per poter essere pronta all’evenienza, provavo e riprovavo l’inchino, ormai mi veniva così bene che Meghan scansate.
Negli anni ho visitato Buckingham Palace così tante volte che oggi potrei tranquillamente farmi assumere come guida turistica. Ogni visita avveniva sempre nella speranza di incontrarla, anche solo per un salutino veloce. Per non parlare dei Giubilei, durante i quali ho più volte rischiato di farmi arrestare per stalking. E per tutti gli anni della mia neanche troppo nascosta devozione avevo sempre dichiarato: quando succederà l’irreparabile, io andrò al funerale, cascasse il mondo.
Il mondo, o almeno un pezzo del mio, é quasi crollato in quella triste sera dell’8 settembre, in cui probabilmente Camilla, in privato, ha fatto partire un trenino con Carlo al suono della Macarena mentre il mondo, fuori, piangeva la perdita di un pezzo di storia.
Che fai a quel punto? Stai a casa a seguire la diretta della BBC? Ma che fedelissima sei??
Il sabato successivo ero su un volo che mi portava a Londra, per una volta con un groppo in gola al posto del solito entusiasmo.
Prima cosa da fare quando si arriva a Londra un po’ tristi é fiondarsi in una sala da té e ordinare un “cream tea”. Non c’è nulla di meglio di un fragrante “scone” spalmato di marmellata di fragole su cui apporre a cazzuolate una montagna di “clotted cream”per combattere ogni malessere. Ecco, la clotted cream (un misto, come consistenza e sapore, tra burro, mascarpone e panna montata, introvabile in Italia) é una di quelle cose per cui vale la pena vivere, a mio parere.
Un po’ rinfrancata, decido di portare i miei omaggi a Sua Maestà, in mezzo a più o meno un milione di altre persone con la mia stessa idea. Londra é una città blindata, le strade sono chiuse e si cammina molto per motivi di sicurezza. Capi di Stato e teste coronate arrivano in città da ogni parte del mondo, quindi in giro ci sono più poliziotti che civili. Fiumi di persone affluiscono a Green Park, il parco di fronte al Palazzo reale, per portare fiori a Elisabetta. Io con loro. Ho comprato delle rose bianche, sono i miei fiori preferiti, non sapendo bene cosa potesse piacere ad una donna che in vita ha ricevuto i doni più preziosi e per la quale ora, nel momento dell’ultimo saluto, di fiori é stato riempito un intero parco. Li lascio nei pressi di un altarino pieno di rose rosse e fotografie, costruito per onorarla probabilmente da un suddito più fedele di me, un lavoro artigianale che mi colpisce per l’amore evidente con cui é stato realizzato.
L’atmosfera é davvero particolare: mesta ma serena, si percepiscono amore e rispetto per una donna che ha dedicato la sua intera esistenza a servire il proprio Paese. Molti piangono, io con loro. Ma sono felice di esserci, di aver mantenuto una promessa.
Nel frattempo le code si allungano, la gente aumenta, i km percorsi a piedi sorprendono persino il contapassi.
La mattina del funerale un classico cielo color “grigio Londra” ammanta l’atmosfera di un velo di tristezza. La città é immobile, niente bus, auto, taxi. Solo migliaia e migliaia di persone che camminano.
Le auto sono riservate ai VIP e nemmeno a tutti, quindi quando ne passa una si cerca di intravedere chi sta trasportando, nonostante i vetri oscurati.
Si odono i 96 colpi di cannone, sparati in Suo onore durante tutta la cerimonia. Un elicottero rompe di tanto in tanto la solennità del momento, per motivi di sicurezza. Persone vestite normalmente si mescolano agli “eletti”, come mi piace definirli, cioè gli invitati alla messa funebre nell’Abbazia di Westminster. Elegantissimi, giacche con le code e cilindro per i signori, tubino nero e cappellino d’ordinanza per le signore, sfilano tra noi poveri mortali, in un momento in cui siamo tutti accomunati dal lutto ma più che altro dall’essere appiedati. Segno distintivo, a parte l’abbigliamento: il programma distribuito durante la celebrazione, portato con nonchalance sotto il braccio. Noi l’abbiamo solo visto in TV.
Sí, lo confesso: ho provato fortissimo il desiderio di strapparglieli di mano!
Quando il feretro di Elizabeth Alexandra Mary, la “mia” Lilibeth, esce dall’Abbazia e comincia la mesta processione del suo ultimo viaggio verso Windsor, mi guardo intorno e vedo persone di ogni età, colore, forse religione e idea politica, in un silenzio raccolto e rispettoso. E penso all’Italia, alla velocità con cui i nostri politici si susseguono, alla stessa velocità con cui vengono prima apprezzati e poi denigrati. Due volte nella polvere e due volte sull’altare, e forse non bastano. Noi Italiani non abbiamo il tempo di affezionarci a volto e a un nome, non potremo mai comprendere quello che è successo nel Regno Unito alla morte di Elisabetta II.
Lei ora riposa accanto al marito Filippo, alla sorella, a mamma e papà. Sotto una lapide di marmo, come una comune mortale. Del resto, lo disse bene Totò, la morte è “una livella”, che cancella tutte le differenze sociali. Questa certezza mi fa immaginare oggi la mia mamma, lassù, che offre un caffè alla mia Lilibeth, perché il tè a casa nostra era destinato ai momenti di mPlessere, e le racconta di tutte le volte in cui le ho parlato di lei, sognando di incontrarla.
( *) Celebre frase attribuita a Enrico III di Navarra ( 1553-1610) in occasione della sua ascesa al trono di Francia, in cui assunse il nome di Enrico IV.
PS : Le foto si devono all’ Autrice del Racconto