Editoriali
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L’uomo e l’architettura contemporanea. Un bel dibattito al “Museo di Sagsa” |
17 novembre 2009
Nei giorni della “VIII
Settimana della Cultura d’Impresa”, a Milano, il gruppo Sagsa ( leader
nel settore dei mobili per ufficio ) ha organizzato un incontro tra
esperti di architettura che per ricchezza d’interventi e complessità di
spunti ha superato di molto la media dei dibattiti cui si assiste
solitamente. <<Nelle attività di SAGSA l’attenzione alla cultura ha sempre rivestito un’importanza particolare>> prova ne è il luogo in cui l’incontro si è tenuto: lo Spazio Eventi SAGSA di Ripa Ticinese 111, dove azienda manifatturiera , che dal 1922 si occupa di arredi per gli spazi di lavoro, ha aperto nel 1992 il proprio museo aziendale. <<Conoscere la storia di un’impresa significa anche rilanciarne il futuro>> ha detto Michele Perini, Presidente di Sagsa, aprendo il dibattito. A discutere attorno al complesso tema "L’uomo nell’architettura contemporanea" Sagsa ha invitato una lista di relatori di rango: Marco Tamino, Presidente Ingenium RE, Giuseppe Sala, City Manager del Comune di Milano, Claudio Artusi, Amminstratore Delegato di CityLife , Aldo Colonetti, Direttore Scientifico dello IED Milano gli architetti Paolo Caputo, Mario Botta, Kim Nielsen e Stefano Boeri, Direttore di Abitare. Oggi i nomi dei grandi architetti sono conosciuti quasi quanto quelli dei grandi calciatori. L’architettura è diventata un segno distintivo dell’immagine di una città o di un marchio commerciale. Le grandi amministrazioni pubbliche del mondo ingaggiano firme prestigiose per costruire edifici di cui nessuno si domanda che andranno a contenere : l’opera di una "archistar", si pensa, conferirà automaticamente dignità internazionale alla città committente. Allo stesso modo agiscono i privati; non si contano più le cantine di aziende vinicole realizzate da famose matite per dare corpo al vino, così come i negozi o gli edifici di rappresentanza. Sempre più spesso, in questo mondo di architettura globale che pare voler disegnare il mondo come una città continua, la ricetta vitruviana del progettare si sbilancia, privilegiando la Venustas in luogo della Utilitas. Secondo la maggioranza dei relatori dell’ evento Sagsa, il fulcro del problema sta in quella che gli architetti chiamano "cultura di progetto", o meglio, quella continua contesa tra differenti studi per accaparrarsi i progetti finanziati dallo Stato, dagli enti locali o dai privati. Il guaio è che sempre più spesso gli architetti disegnano l’edificio e pretendono di disegnare anche il significato. Sarebbe tollerato, viene da chiedersi, in letteratura che un autore commentasse il proprio libro per ottenere autorizzazione a scriverlo? Riportare l’architettura verso i bisogni reali dell’uomo significa prima di tutto riconsegnarla realmente a questo, trasformando l’uomo nell’unico metro e nell’unica misura di fattibilità. Occorre che gli architetti e i progettisti ritornino a occuparsi di quello che resta tra un edificio e l’altro, che la loro preoccupazione sia l’insieme di segni che un nuovo edificio genera durante l’esercizio delle sue funzioni e non il singolo segno estetico dell’autoreferenzialità in cui stiamo tutti affogando. Ristudiare la società: questo dovrebbe essere il buon compito di ogni architetto, disegnare spazi che tengano conto della realtà economica di oggi, capire che negli ultimi anni l’organizzazione del lavoro è cambiata in maniera notevole e che a questi cambiamenti, i loro progetti devono trovare risposta. Occorre passare dal <<fuck the contest>> di Rem Koolhaas alla battaglia contro <<l’apologia del fare>> proposta da Mario Botta. <<L’architetto può costruire per la città, ma può anche costruire contro la città>>. E’ strano: l’architettura è il mestiere che più di tutti deve fare i conti con i problemi del mondo, ma al tempo stesso ne è sopraffatta. Li insegue senza riuscire a controllarli. I grandi architetti sono più affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più importanti del pianeta (e chi potrebbe rimproverargli questa ambizione?) che dall’idea di affrontare i problemi tecnici e sociali causati dall’urbanizzazione mondiale (…) sarebbe bello se gli architetti rifiutassero di presentare progetti, che in fondo, sono di seconda mano. Se avessero le loro opinioni e le esprimessero. Se si decidessero a prendere la parola. Se i più famosi non si limitassero a fare l’esegesi delle loro opere e a esprimersi con grande retorica, ma formulassero delle proposte sugli alloggi in città, su come affrontare l'emergenza pensando anche sul lungo periodo. (…) più ammiriamo gli architetti e più speriamo che riescano a liberarsi dalla cultura del progetto, da una forma di pensiero "a breve termine" imposta dal consumismo. E che tornino ad essere dei visionari del mondo (Marc Augé). |