29 ottobre 2010
di Antonio Intiglietta,
Presidente Ge.Fi
La discussione in Italia in
merito a un bisogno abitativo sempre più emergente va avanti da tempo,
ma le risposte concrete effettivamente realizzate sono poche e
insufficienti. La mancanza è anche di conoscenza: il dibattito pubblico
generale ha fatto emergere ancora tanta confusione nella definizione
stessa di una politica per la casa, anche a causa di una legislazione
frammentata che non aiuta ad avere le idee chiare.
La necessità del Paese e delle maggiori città è quella di rispondere
attraverso un’iniziativa pubblica o privata, profit o no-profit, al
bisogno dell’abitare di tutte quelle realtà sociali, famiglie, studenti,
professori, ricercatori, impiegati o immigrati, a condizioni economiche
appunto “sociali”. Questo vuol dire dare la possibilità a queste
categorie di affittare una casa a un costo che non superi il 30% del
proprio reddito, permettendo loro una vita dignitosa soprattutto nelle
città più grandi dove il tenore e il ritmo di vita è più elevato.
L’ampia fascia di persone coinvolte da questo bisogno è esattamente a
metà tra chi è in grado di acquistare una casa in edilizia libera e chi
invece è al di sotto della soglia di povertà. È una fascia ampia e
diversificata a cui appartengono la maggior parte delle persone che oggi
lavorano e vivono nelle nostre città. È la famosa “zona grigia”, la
classe emergente del Paese che produce, che studia, che lavora nei
servizi pubblici e che proviene dal Nord e dal Sud Italia o dall’estero
e che lavora nelle nostre città, una fascia eterogenea che viene troppo
spesso sfruttata dal mercato illecito degli affitti in nero: l’immigrato
che si trasferisce in Italia per lavorare, le famiglie che vivono una
condizione di disagio economico ma anche la badante, il muratore,
l’artigiano, il cameriere, il giovane ricercatore che viene a lavorare a
Milano, il poliziotto o l’impiegato. E ancora il vigile urbano o il
vigile del fuoco, la donna che vive sola con il proprio figlio o le
giovani coppie.
Per questo è urgente mettere sul mercato un’offerta di case in affitto
“sociale”, cosiddetta di social housing.
Ci sono persone poi che per poter acquistare una casa si affidano a una
lista comunale e attendono che le ALER o le società pubbliche di
edilizia popolare costruiscano le nuove case. Si registra però sempre di
più da parte delle Regioni una indisponibilità finanziaria per questa
iniziativa, senza contare poi che la manovra finanziaria riduce
ulteriormente questa disponibilità. Il rapporto tra la domanda di
bisogno di case e l’offerta presente sul mercato, è totalmente
inadeguato: la realtà è che non ci sono più risorse economiche pubbliche
per rispondere a questo fabbisogno. Molti anni fa lo Stato destinava una
quota importante alle politiche della casa tramite una tassazione degli
stipendi che poi è stata eliminata. Oggi per le Amministrazioni
regionali e comunali è giunto il momento di dare una svolta alla
politica di edilizia popolare e a quella dell’edilizia in affitto
sociale, per agevolare quelle fasce che sono abbastanza povere da avere
diritto alla casa ma nemmeno così ricche per acquistarle, fosse anche
tramite una cooperativa. A questo si affianca un altro intelligente
intervento dello Stato, ovvero la costituzione da parte della Cassa
Depositi e Prestiti di un Fondo destinato a intervenire a favore della
costituzione di Fondi territoriali che si stanno realizzando in tutta
Italia o di dimensione regionale o di dimensione locale, che hanno come
scopo quello di fare investimenti e di mettere a reddito (a un tasso
d’interesse del 3% più l’inflazione) i beni costruiti, cosicché il costo
dell’affitto risponda a quei criteri di sostenibilità del famoso 30% del
reddito di queste fasce sociali.
Posto quindi che sono in fase di avvio sia il processo finanziario che
quello legislativo in Regioni come la Lombardia, non si capisce come mai
non si riesca a dare una risposta rapida a un bisogno emergente così
dilagante e soprattutto cosa frena la capacità di realizzazione. Le
motivazioni sono da ricercare in una struttura amministrativa assai
lenta e complessa e in una oggettiva difficoltà nel reperire le aree su
cui potere fare queste iniziative. Per realizzare le abitazioni e
rispondere a quest’esigenza occorrono vari fattori: primo su tutti, le
aree devono necessariamente avere un costo tendente allo zero e
vincolate a una funzione sociale, quindi aree standard con un costo che
non può essere speculativo. A questo va aggiunto che il costo di
progettazione e costruzione deve essere economico secondo i principi
ecosostenibili, e su questo punto c’è un forte processo innovativo in
atto sulle tecnologie e sulla progettazione, come abbiamo dimostrato
durante EIRE 2010 all’interno della Social Housing Exhibition. Infine
c’è bisogno di un’agevolazione finanziaria con protagoniste le
Fondazioni bancarie e una politica di agevolazione fiscale sulla quale
invece lo Stato è completamente immobile. Basterebbe avere lo stesso
regime di IVA di chi acquista la prima casa, invece oggi chi fa
politiche sociali della casa non ha alcuna agevolazione fiscale. Inoltre
c’è un problema endemico nella Pubblica Amministrazione in generale:
essa non si è ancora resa conto che occorre un piano d’aree funzionale a
questo sviluppo e che va messo rapidamente a disposizione non solo nella
pianificazione urbana del futuro, ma anche del presente nel più breve
tempo possibile, come se fosse “uno sportello unico aperto” che accoglie
e accetta le proposte che nascono dalla società e introduce iniziative
dirette, provocando un mercato sociale profit o no-profit perché si
realizzino. Da parte delle Amministrazioni c’è una mancanza d’iniziativa
che inevitabilmente farà esplodere l’esasperazione e il malessere dei
cittadini. Si discute troppo, si pianifica tanto ma si concretizza poco
per via della lentezza della macchina burocratica del nostro sistema.
Questo è il punto. Per esempio se a Milano oppure a Roma si riuscisse in
breve tempo a mettere sul mercato anche “solo” 10.000 appartamenti, il
mercato immobiliare privato sarebbe costretto ad abbassare le sue
pretese e i suoi canoni, favorendo un nuovo equilibrio tra domanda e
offerta, e quindi di prezzo. Dal mercato abitativo arriverebbe un forte
segnale concreto di ripresa a tutta la comunità economica nazionale.
Il compito di chi governa è quello di intravedere quali sono le
problematiche principali e creare processi che mettano in moto in primis
la società civile per risolverle. Sulla questione della casa si parla
troppo e si fa poco perché non si capisce quale è la vera entità della
problematica. Nella maggior parte dei casi chi è in lista d’attesa per
una casa, immigrati e non, hanno un lavoro: l’immigrato venuto in Italia
tendenzialmente fa il muratore, l’imbianchino, l’idraulico, il
pizzaiolo. Iniziamo attraverso un’offerta seria di social housing a far
sì che queste persone, in grado di pagare un canone indicativo di
300/400 euro al mese, non partecipi più alle liste pubbliche, pensate
per chi è povero davvero. Si tratta in particolare degli anziani con la
pensione sociale: diamo loro invece un “buono casa” che possa rispondere
al bisogno in modo più trasparente e rapido. Che queste case siano poi
messe a disposizione dalle ALER, dalle cooperative o dai privati poco
importa, il punto è che si risponde a un bisogno e intanto non si va a
pesare sulle casse pubbliche come invece si fa oggi. Se la politica
della casa non arriva a questo orizzonte vuol dire che non ha capito
qual è la strada da intraprendere, quali sono i rischi reali se non lo
si fa in fretta e soprattutto qual è il suo vero compito nell’interesse
del bene comune.
(Fonte: EIRE Forum,
www.italiarealestate.it)