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È in corso una specie di sagra delle idee strambe su come dovrà
essere organizzato il lavoro e, più in generale, l’attività economica
nel “dopo Coronavirus”. Siccome non ci siamo ancora, tutti sono liberi
ad immaginare un futuro che collimi con la propria
ideologia, con i propri interessi o semplicemente con il proprio gusto
personale. Al momento, per esempio, si dà praticamente per scontato che
il futuro apparterrà al “home working”.
I politici ne dicono un gran bene, gli accademici anche. È però
presto per sapere come l’attuale esperimento andrà a finire. C’è anche
da considerare che i principali tifosi – oltre a quelli che vendono le
tecnologie necessarie – sono persone che non hanno
mai lavorato quotidianamente in un’azienda. Hanno interessanti ipotesi
su come sarebbe la vera esperienza di lavoro, ma chi è stato “in
trincea” sospetta che, a parte pochi specialisti che già fanno quel
cavolo gli pare, l’home working verrà visto da molte
società come una meravigliosa opportunità per disfarsi prima e
soprattutto di quei dipendenti che non vogliono più avere nei loro
uffici.
I guru della managerialità immaginano invece un paradiso terrestre
che riunirà le famiglie in simpatiche villette nel verde, dove al “break” la
mamma salirà in bici per andare a fare la spesa presso gli altrettanto
simpatici negozietti del vicinato,
mentre papà – tra una video-conferenza e l’altra – potrà occuparsi del
giardino e della raccolta delle verdure per la cena organica. È una
visione che non tiene conto delle molte persone che apprezzano l’ufficio
proprio per la possibilità di liberarsi del ménage domestico
per qualche ora ogni giorno…
Dove i sogni ad occhi aperti degli esperti politici e accademici si
scontrano direttamente con la realtà è nel crescente fervore attorno
all’idea di organizzare gli home workers in parallel
teams – yes, squadre parallele – duplicando identiche
competenze e aree di responsabilità… Collaboreranno come fratelli
affezionati, magari scambiando “best practices”, già che siamo sull’anglosassone.
Davvero? Non è che si dichiareranno guerra questi parallel teams,
messi a gareggiare sulla stessa pista verso un obiettivo che nei fatti
solo uno conquisterà? Vengono in mente bande d’Apache o le scene di
battaglia di Braveheart – Cuore impavido (1995), il
film di Mel Gibson ancora ricordato per le vendette storiche, i fiumi di sangue e gli smembramenti.
Il singolo impegno più difficile e più importante nella gestione di
un’azienda è quello di creare unità, di assicurarsi il massimo grado di
collaborazione interna per condurre una sorta di missione congiunta e
condivisa verso il mercato e contro i concorrenti.
Le strutture “parallele” sono, nel mondo reale delle aziende
articolate, stratagemmi di distruzione, giochi al massacro.
( tratto da Mercoledì di Rochester, per gentile concessione ) |