Nel linguaggio degli architetti lo spazio che rimane tra un costruito e un altro si chiama “spazio di risulta”, definizione viziata e tendenziosa fin dai presupposti. Infatti, se uno spazio viene riempito da due palazzi, il vuoto che resta tra loro, a rigor di logica, è l’unica cosa che lì c’è sempre stata.
Nessuno spazio vuoto può essere il risultato della consumazione del territorio; si tratta piuttosto, dell’unica parte ancora non consumata. Il termine “spazio di risulta” sottintende, invece, l’idea di avanzo, di scarto; di luogo rimasto per errore, cui segue una logica necessità di riempimento e occupazione che trasformi il vuoto in pieno.
Questo modo di guardare allo spazio vuoto che circonda le nostre città, e che separa i paesi delle nostre province, ha prodotto e giustificato un consumo del territorio senza regole e senza fine.
Milano è un caso emblematico, oggetto di studio da parte delle scuole di urbanistica di tutto il mondo, per questa consumazione di suolo, per questa urbanizzazione selvaggia che, in 20 anni o poco più, ha reso indistinguibile il confine tra un comune e l’altro, tra campagna e città, tra terreno agricolo e terreno urbano, impoverendo, in tal modo, la cultura milanese, il territorio e l’economia.
Così come tra qualche anno i nostri figli sorrideranno cinici all’idea che ai tempi nostri si fumasse per diletto, ai futuri nipoti sembrerà assurdo che nel nostro espanderci a macchia verso l’esterno della città, non ci sia mai venuto in mente di calcolare il danno che la sola impermeabilizzazione del terreno cittadino avrebbe comportato. Il suolo milanese è, infatti, impermeabilizzato al 45,5% e, tra il 1999 e il 2007, la percentuale è cresciuta dello 0,6%. A Rho, la sola costruzione del polo fieristico, ha impermeabilizzato il 26,9% del territorio comunale.
“Il suolo è un elemento chiave per il ciclo idrologico. La permeabilità del suolo, ovvero la sua attitudine a farsi attraversare dall’acqua, evita che quote eccessive d’acqua raggiungano troppo presto i fiumi formando piene pericolose. Il suolo libero è naturalmente permeabile, sebbene con minore/maggiore intensità, mentre il suolo urbanizzato è impermeabile. Il passaggio da un suolo libero a uno sigillato comporta l’insorgere di numerosi effetti ambientali indesiderati il cui controllo richiede cospicui investimenti: aumento dell’erosione superficiale, maggior rischio idrogeologico, maggiori alluvioni, modificazione e distruzione di habitat, mutazioni del ciclo climatico”. Lo spiega Luca Tomasini del Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano nel capitolo sulla permeabilità dei suoli del volume “Spazi Aperti, un paesaggio per Expo” presentato alla Triennale di Milano lo scorso 7 ottobre 2011 dal Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico (DIAP) e da Fondazione Cariplo.
Le ricerche del DIAP, promosse e finanziate da Fondazione Cariplo, hanno preso in esame una porzione di territorio che gira attorno all’area Expo, l’area attualmente a maggior rischio di consumazione di suolo, e hanno fotografato lo stato di quanto rimane ai margini di una città come Milano. Oltre il 60% dell’area presa in esame è urbanizzata (31.500 ettari di territorio di cui restano vuoti 11.000 ettari). Il DIAP ha scattato settemila fotografie battendo 300 Km a piedi e in bicicletta per due anni di lavoro. Quel che n’è risultato è uno studio attento e unico, che vorrebbe, appunto, creare lecondizioni per il recupero e la riconsiderazione di questi spazi aperti, riconoscendo a essi un valore e un’identità. Boschi, fontanili, aree agricole e semplici prati, spazi scoperti tra aree urbane, tra strade o dietro ai capannoni, spazi che iniziano in periferia e che, talvolta, penetrano fin nel cuore della città.
“Un mosaico di diversità. Parti irrisolte, scomposte. Parti che giacciono apparentemente abbandonate. Parti che sopravvivono con la loro identità agricola nonostante l’avanzare della città. Parti che sono ad un passo dalla loro scomparsa perché sulla carta, sono già centri commerciali, parcheggi, case ecologiche, strade, hotel, motel, strutture logistiche e impianti”, è così che Paolo Pileri del DIAP Politecnico di Milano definisce questi vuoti, questi spazi aperti che, per troppo tempo, abbiamo chiamato “non luoghi” o “spazi di risulta”. Il termine “parti irrisolte” che usa Pileri, presentando lo Studio al pubblico, è un termine che rimarca e denota una sostanziale e apprezzabile differenza di atteggiamento.
“La combinazione tra meri interessi individuali, urbanistica miope e indebolita nelle sue funzioni pubbliche e la ricca finanza immobiliare ha per troppo tempo colonizzato il Bel Paese cospargendolo di villette, parcheggi e supermercati. Ha costruito un modello di vita basato sugli interni: in casa, in auto, in negozio, in palestra, in taverna. Mentre l’Italia è da sempre l’esempio sublime dell’internità degli esterni”. Il concetto, così spiegato, suona complicato e difficile, anche solo da pronunciare; tuttavia questa “internità” è davvero la caratteristica del nostro abitare e del nostro costruire l’abitato. L’idea della piazza come di un ambiente che è connessione tra gli abitanti e anche rifugio accogliente, misura dello spazio, proporzione e quiete. Quello che piace ancora oggi al turista straniero, quello che tutti vengono a cercare qui da noi (penso all’albergo diffuso, concetto ormai di moda e reso possibile dalla conformazione unica e inimitabile dei nostri borghi, salotti a cielo aperto, delle nostre città-fortezza chiuse dentro mura eleganti di cui spesso non si avverte la presenza) e che noi pare, non sappiamo più fare.
Negli ultimi dieci anni, rivela lo studio del DIAP, l’area presa in esame ha perso 15 ettari di spazi aperti al giorno e la marcia, inesorabile, dell’urbanizzazione non accenna minimi segni di arresto.
Questo consumo indiscriminato e miope non è che il frutto di politiche locali incapaci di ragionare gli spazi antropizzati come un bene comune. I confini amministrativi, invisibili, ma potenti, non hanno fatto che frammentare ulteriormente il territorio. “Una pianificazione per competenza, incurante della continuità del paesaggio ha prodotto frammenti di frammenti così piccoli e isolati che ogni successivo amministratore comunale facilmente vede e considera come spazio residuale che è meglio valorizzare costruendo”.
Attorno ai grandi eventi si concentrano grandi appetiti ma anche grandi occasioni per correggere rotte che non hanno più senso, se non quello di ipotecare quote di futuro. La ricerca del DIAP, che Fondazione Cariplo ha sostenuto, fornisce gli elementi basilari per trasformare gli appetiti generati dall’Expo in occasioni di riscatto, recupero e salvaguardia del nostro territorio. (Lorenzo Taini)
Spazi Aperti. Un paesaggio per Expo
A cura di Paolo Pileri (DIAP- Politecnico di Milano)
Edizioni Electa