di Paola G. Lunghini
E’ stata dedicata a Nelson Mandela l’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala. Prima dell’inizio de “La Traviata”, infatti, il Maestro Daniele Gatti è salito sul palco per un ricordo del leader sudafricano. «La città di Milano e il Teatro alla Scala – ha detto Gatti – desiderano ricordare Nelson Mandela». Al termine di questa frase il Maestro è stato interrotto da un fragoroso applauso e dalla standing ovation di tutti i presenti. Successivamente il Maestro ha chiesto di osservare un minuto di silenzio per «un uomo che ha dimostrato un’umanità profondissima per tutta la sua vita». Dopo, come consuetudine, è stato eseguito l’inno d’Italia e si è alzato il sipario. Così l’ incipit della breve Nota che si può leggere sul sito ufficiale del Comune di Milano.Al termine della performance – come tutti avrete appreso da internet, dalla televisione e dai giornali – ci sono stati dieci minuti di applausi ( che per una Prima non sono nemmeno tanti) equamente condivisi con dieci minuti di fischi e di sonorissimi BUUUUUUU.
Fossi stata lì, il BUUUU l’ avrei espresso – con un po’ di eleganza, però, probabilmente andandomene semplicemente via – già all’ inizio del Preludio del primo atto.
Alcune piccole precisazioni. Non sono mai stata a una Prima della Scala ( non sono così importante !!!) ma la musica la conosco da sempre e l’ ho molto praticata ; e in musica mi ci sono persino laureata . Alla Scala, da quando avevo nove anni , ci sono stata una infinità di volte, talmente tante che non saprei dire un numero. Per non dire degli altri teatri . Non sono di fede “ verdiana” – i miei amici sanno che, per quanto riguarda l’ opera, sono semmai pucciniana/wagneriana – ma Traviata la conosco benino, e mi piace assai . In sintesi, ho titolo per fare la recensione che qui faccio. La Traviata della Prima scaligera l’ ho vista stasera grazie alla diretta televisiva, ascoltandola contemporaneamente sulla diretta di Radio RAI 3, cui mi collego – il 7 dicembre – da moltissimi anni .
Cominciamo allora dall’ inizio.
Atmosfera di grande attesa, in città, per codesta Traviata che per la prima volta ullallà inaugurava la Stagione. Biglietti esauriti da un pezzo, “ primina “ per i giovani ( un paio di giorni orsono) , paginate di inchiostro , negozi del centro con vetrine “ studiate apposta”, merchandising dedicato, etc etc. Insomma, tutto bene e come deve essere per una Prima della Scala, a maggior ragione se con l’ opera più rappresentata al mondo. Talmente amata, osannata , filmata, incisa, e appunto rappresentata da non richiedere altro per definirla, se non che per un soprano è tra le più difficili , e non solo tra le opere verdiane. Occorrono:
-una voce di assoluta eccellenza
-una presenza che si fonda con una straordinaria capacità di gestire la scena ( non scordiamo che Violetta rimane in palcoscenico cantando – tranne alcuni minuti – dall’ inizio alla fine dell’ opera. Massacrante)
-una cultura musicale di primissimo ordine, unita a vasta esperienza
-nervi molto saldi, perché dal dopo Callas ( anche se ciò per me non è giusto) il confronto con la “ Divina Maria ” è lì implacabile, soprattutto se alla Scala.
Cosa è successo, invece?
Si apre il sipario mentre l’ orchestra esegue il Preludio del primo atto. ( Ma che roba è questa??? Un po’ di filologia, che diamine ! Il Preludio è a sipario chiuso ! ). E si apre su una visione di Diana Damrau ( il soprano, tedesca, che interpreta la Signora delle Camelie) che si ammira di fronte a un grande basculante e dorato specchio. La telecamera inquadra impietosamente la robusta spallina di un robusto reggiseno che contiene le robuste curve della prosperosissima cantante. Sulla bionda parrucca piatta – eco degli anni trenta ? – rosseggia una camelia ( ahimè…) . Per tutta la durata del Preludio ella si ammira, vestita di una sorta di sottoveste di color blu elettrico. Poi, a un certo punto, le braccia grassocce se le infila in una specie di manica di velo , mentre la “ serva-amica” Annina le aggancia al collo una sorta di sovrastruttura metallica : che dovrebbe essere una collana di immenso valore. L’ Annina in questione esibisce una cresta di capelli rossissimi, e un abbigliamento del tipo “ anziana peripatetica di periferia” ( letteratura, sia chiaro !).
A questo punto arrivano gli ospiti per la festa del “ Libiam ne’ lieti calici” : una massa di gente che del coro scaligero quasi nulla ha, ma in compenso è vestita come in un qualsiasi demenziale spettacolo televisivo di serie C. Violetta – che mentre canta ridacchia e tracanna bicchieri di liquore e inghiotte pasticcini – si agita tipo ossessa ( cosa che continuerà a fare sino alla fine dello spettacolo) , e scompostamente arriva a posare i piedi su una poltroncina. Nel frattempo arriva Alfredo ( cioè il tenore polacco Piotr Beczala), che a 47 anni ha ancora l’ aria di chi dice « ma cosa ci sto facendo qui io?», e dichiara a Violetta/ Diana il suo amore con una mano nascosta nella tasca sinistra della giacca. Si va avanti così sino alla fine del cambio di scena. Penoso.
Adesso arriva il bello, la cucina
Siamo in una cucina degna di una soap opera televisiva di produzione sudamericana. Arriva Alfredo, con la spesa dal supermercato, e rovescia sul tavolo pani, formaggi, salumi e ortaggi. Si infila un grembiule, e incomincia a tirare la sfoglia. Intanto la bella – vestita come una massaia bavarese degli anni sessanta , abituccio di maglina color del can che scappa , collettino bianco con ricamini , biondi capelli a coda di cavallo spettinatissimi – gli volteggia attorno, e tira anche lei la sfoglia dandogli bacetti .
Allorchè arriva il babbo di Alfredo , ossia il cattivissimo Giorgio Germont (interpretato dal baritono senza gloria Zeliko Lucic , scusate, data la provenienza balcanica gli accenti corretti mi sfuggono) per darle il benservito, Violetta/Diana gli serve, agitandosi, il caffè. Messisi d’ accordo su una sedia a dondolo ( lei scomparirà e di colpo dalla vita del figlio), il dramma si consuma di fronte a un tagliere della cucina, dove la poveretta cerca di scrivere una lettera di addio ad Alfredo. Giunge il suddetto e , scoprendo che Violetta è fuggita, si mette con violenza ad affettare gli ortaggi per cucinare probabilmente un buon minestrone ( ho notato infatti carote, zucchine, sedani e peperoni , all’ apparenza freschissimi e di ottima qualità). E ogni tanto dà pure una ripassata alla sfoglia.
La festa da Flora.
Come si sa, la seconda parte del dramma inizia con un’ altra festa: a casa di Flora ( escort amicona di Violetta) si raduna una allegra compagnia . Dimenticate, per favore, Verdi, il coro “ Noi siamo zingarelle” e pure il grido di Alfredo “Qui testimoni vi chiamo, che qui pagata io l’ ho” . No, no, siamo probabilmente nella movida moscovita. Mentre Violetta/ Diana si agita talmente tanto che a un certo punto la abbondante, biondissima e riccioluta parrucca decide autonomamente di abbandonare di colpo la testa della protagonista , rivelando una gran massa di impietose forcine , ella, impassibile – da vera professionista tedesca – anzicchè farsi prendere da una crisi di nervi continua imperterrita a cantare, vestita di un orribile e aderente vestito verde che impietosamente sottolinea i prosperosi fianchi.
La voce però c’è, e qualche applauso a scena aperta – a Violetta indirizzato- si è già sentito. Oddio, una Violetta niente di speciale, sia chiaro. Ma nel mondo odierno, quello del “ good enough” … tantum sufficit.
Cara Diana , se sei arrivata a fare Violetta a 42 anni e per giunta è la tua prima volta nei panni della Traviata alla Scala , e se – come ho letto – eri a Milano da ben 40 giorni per le prove della Prima – forse a me qualche sospetto viene. E’ come se facessero firmare a un praticante giornalista un articolo in prima pagina sull’ FT. Magari è bravo, e vince la scommessa. Forse.
L’ ultimo atto, finalmente
Sappiamo tutti che Violetta muore di dolore e di tisi . Nell’ ultimo atto, in vestaglia grigia, camicia da notte e pantofole, spettinata e livida, la nostra ingurgita pasticche a man bassa , si fa portare l’ acqua minerale ( peccato, non ho scorto la marca, se no sarebbe stato un bel “ placement” ) e si attacca a una bottiglia di probabile whisky. Continua ad agitarsi come un’ ossessa, sino a quando – finalmente – si decide a lasciare questo mondo. Non prima , però, di aver cantato lo struggente “ Addio del passato” distesa per terra ( per poi avvilupparsi in un piumino) mentre Alfredo, evidentemente un po’ impaziente, guarda con attenzione il suo orologio da polso. Poi ella si accascia , su una seggiola, e la Traviata finisce.
Ecco, ci siamo capiti?
Nessuna emozione, e tanta, troppa volgarità. Non è questa la Scala che vorrei. Dove – per carità- ho visto in tanti decenni un sacco di schifezze ma anche tantissime cose insuperabili e insuperate.
Se ci fosse un reato di offesa alla Scala, fosse per me il russo Dimitri Tcherniakov- che ha firmato la regia – sarebbe già in un gulag, insieme alle sue altrettanto russe costumiste. Dopo aver vestito di stracci i protagonisti , i comprimari e i coristi dell’ opera più amata , egli ha avuto l’ ardire di comparire sul palcoscenico in un impeccabile smoking. A raccogliere fortunatamente non applausi ma dieci minuti di BUUUUU.
Ma non è sua la colpa, al di là della sua insipiente arroganza; la colpa è di coloro che l’ hanno chiamato. Faccia però il favore , Dimitri, di farsi chiamare altrove.
Serve aria nuova.
Al Maestro Gatti , che certo è milanese e appassionato, serve – per essere degno della miglior tradizione scaligera- un po’ più di charme.
Nota : è ovvio che subito dopo questa terrificante performance non mi rimaneva che la consolazione di riascoltare , a casa mia, le interpretazioni di Maria Callas e Placido Domingo.