di James Hansen (*)
La malinconia associata al ricordo storico di chi saliva sui “bastimenti” per partire alla volta dell’Argentina o degli Stati Uniti—o per le altre destinazioni della diaspora italiana—dipese dal fatto che la partenza era una sorta di “piccola morte”. Non era affatto certo che chi partiva sarebbe mai tornato per riabbracciare i familiari.
Una caratteristica peculiare della nostra epoca è—è stata—la facilità e il basso costo dei viaggi internazionali di lungo corso. L’idea stessa della “emigrazione” è cambiata. Non si va più a passare la vita in terra straniera, ci si va semmai a “vivere”, più o meno a lungo, ma tornando regolarmente per le vacanze e, spesso, per le feste comandate.
L’emergenza sanitaria globale ha già portato al fallimento un buon numero di linee aeree piccole e grandi—e chi sopravvive ancora è fermo: mancano i passeggeri, mancano le destinazioni, spesso chiuse ai viaggi internazionali “causa Coronavirus”. Perfino gli Stati Uniti hanno chiuso le frontiere ai voli. Qualora si possa ancora volare, le contrastanti soluzioni di quarantena rendono impraticabili i viaggi.
Il Regno Unito, come molti altri Paesi, ha annunciato una quarantena di due settimane per i passeggeri internazionali in arrivo. Quando pure il Paese d’origine del passeggero impone la sua quarantena al rientro, un “salto” a Londra potrebbe costare un mese intero. Si faceva prima con le navi a vapore.
Ciò finirà, ma non è per niente chiaro chi tra i vettori di oggi ci sarà ancora per soddisfare la domanda di voli, specialmente agli inevitabili “nuovi” prezzi—inevitabili per recuperare i guadagni persi, ma anche di fronte al prevedibile calo dei volumi. Il problema è che la rete dei trasporti aerei è altamente “capital intensive”. Ogni anello della catena—gli aerei e i loro equipaggi, la rete di controllo del traffico aereo internazionale, gli aeroporti, il carburante e il supporto logistico—implica grandi costi che devono essere “spalmati” su un altrettanto grande numero di passeggeri per far tornare i conti.
Non è solo una questione di vacanze alle Maldive.
Potrà un’azienda permettersi ancora di mandare qualcuno a Los Angeles per trattare una questione che, tutto sommato, si può risolvere con una videoconferenza?
Quello dei trasporti a lungo raggio è un meccanismo costoso e delicato, calibrato in scala per servire un mercato che è—senza alcun preavviso—scomparso. Non è detto che regga la crisi e, per com’è organizzato, non può riprendere a funzionare come prima se viene meno anche un solo elemento del complesso logistico ed economico che lo tiene in vita. Un “jumbo jet” non è una nave, che se non trova una banchina d’attracco può scaricare i suoi passeggeri con le scialuppe—e che, mentre viaggia, è una sorta di isola galleggiante, indipendente e autonoma. Gli aerei non scompariranno dai nostri cieli. Il mondo è oggi troppo integrato per permetterlo. Però, anche recuperata una sembianza di “normalità”, l’epoca del viaggiare facile attorno al globo solo perché “ci va” è giunta alla fine. Si torna a dover avere un buon motivo per partire. Il resto del mondo è ora più distante di prima.
( *) per gentile concessione