Alcuni dipendenti dell’imprenditore Danilo Coppola hanno deciso di manifestare oggi davanti alla sede dell’Agenzia delle Entrate di Roma per il caso giudiziario che ha coinvolto il Gruppo e che sta mettendo a rischio i loro posti di lavoro.
Danilo Coppola, pur dichiarandosi contrario alla manifestazione, ha annunciato il deposito di una querela per estorsione nei confronti della Agenzia delle Entrate.
I fatti che hanno dato origine alla manifestazione sono di seguito sintetizzati dallo stesso imprenditore:
«Sono stato arrestato nel 2007 con l’accusa di bancarotta e tenuto in custodia cautelare per circa due anni a seguito del fallimento della società Micop, rivelatosi poi inesistente, richiesto dalla Procura della Repubblica di Roma per un debito tributario che non era ancora scaduto. Il fallimento è stato poi annullato dalla Cassazione.
Durante questo fermo forzato le aziende del mio Gruppo hanno perso centinaia di milioni perché costrette a subire le innumerevoli istanze di fallimento, via via presentate dalla medesima Procura, per ulteriori debiti fiscali rappresentati da meri avvisi di accertamento, in realtà tutti fondatamente contestabili e contestati.
Tornato in libertà all’inizio del 2009, anziché lasciare in fallimento ovvero far fallire le altre società del Gruppo aspettando l’esito dei ricorsi presentati avanti le commissioni Tributarie, ho deciso di sanare ad ogni costo la posizione con il fisco, e ciò anche per salvaguardare il posto di lavoro dei miei circa 200 dipendenti e degli altri circa mille lavoratori impiegati nei vari cantieri edilizi delle mie iniziative imprenditoriali.
Si è così aperta, su mio impulso, una trattativa con l’Agenzia delle Entrate conclusasi con un accordo transattivo per il pagamento dell’importo complessivo di circa € 211 milioni che mi ha già visto pagare in 18 mesi la rilevante cifra di € 160 milioni.
L’aggravarsi della crisi immobiliare e creditizia mi ha però impedito di pagare in unica soluzione i rimanenti 51 milioni, che ho quindi proposto di estinguere con il versamento di un acconto per € 36 milioni e la rateizzazione a cinque anni del rimanente importo di € 15 milioni.
L’Agenzia delle Entrate, con stupore di tutti, ha però negato la possibilità di tali pagamenti pretendendo che tutto il debito residuo fosse pagato in unica soluzione.
Da allora si è cercato di trovare un accordo con l’Agenzia per fare in modo che l’impegno assunto nel giugno 2010 potesse essere onorato. E questo nonostante nel frattempo la Cassazione abbia, come detto, annullato il fallimento della Micop da cui era scaturito il contenzioso fiscale.
Contrariamente ad ogni legittima aspettativa l’Agenzia delle Entrate non solo ha negato il proprio consenso, ma ha addirittura preteso coattivamente da alcune delle società del Gruppo l’importo di € 270 milioni, che erano stati transatti ad € 51 milioni, e che, soprattutto, risultano tutti oggetto di provvedimenti giudiziari ed amministrativi di sospensione.
Dopo aver pagato € 160 milioni si nega dunque da parte dell’Agenzia delle Entrate la possibilità di saldare un debito, per quanto interamente contestato nelle competenti sedi, per l’immotivata preclusione al suo pagamento rateizzato, quasi che, unico caso in Europa, si voglia da parte pubblica infierire su chi ha dato prova di grande responsabilità e capacità contributiva, e che, per tali ragioni, meriterebbe ben altra fiducia se non altro per l’egoistico fine di realizzare per l’intero il credito vantato e con gli ulteriori determinanti effetti di chiudere il relativo contenzioso e di mantenere l’attuale livello occupazionale che un a eventuale dichiarazione di fallimento renderebbe impossibile.
Francamente non mi sembra questo il giusto atteggiamento che dovrebbe tenere l’Amministrazione finanziaria a tutela dell’interesse pubblico, che non è certo quello persecutorio finalizzato all’estinzione del contribuente, bensì quello di assisterlo onde consentirgli, nei limiti e nel rispetto della legge, di provvedere ai dovuti adempimenti fiscali, ad esclusivo beneficio delle casse statali cui altrimenti quelle preventivate entrate verrebbero a mancare.
E’ evidente che il metodo utilizzato dall’Agenzia delle Entrate, abusando di istituti che la legge gli mette a disposizione, consiste nel creare dei debiti fiscali mediante avvisi di accertamento su contestazioni palesemente infondate che il contribuente impugna nelle sedi competenti; nell’iscrivere a ruolo straordinario la pretesa fiscale oggetto degli avvisi di accertamento; nell’eseguire pignoramenti e, conseguentemente, nel proporre istanza di fallimento sulla base di tali debiti fiscali inesistenti. Istanze proposte, inoltre, nonostante siano pendenti i relativi giudizi avanti le Commissioni Tributarie, sul cui accertamento il giudice fallimentare non può entrare, costringendo così l’imprenditore che ne sia in grado a patrimonializzare la società per dimostrare, in sede fallimentare, che sarebbe in grado di onorare il debito fiscale qualora, per ipotesi, perdesse il contenzioso fiscale. E’ chiaro che il contribuente che non può permettersi di patrimonializzare la società, deve ricorrere ad accordi con l’Agenzia delle Entrate e pagare per un debito inesistente. O peggio, qualora non abbia neanche quest’ultima possibilità, di assistere ad un fallimento per un debito che non ha».